Resine

Introduzione

Genericamente una resina può essere definita come prodotto organico, solido o semisolido, d'origine naturale o sintetica, senza un preciso punto di fusione e, generalmente, d'alto peso molecolare. Molte resine sono polimeri.

Le resine trovano molte applicazioni in numerosi settori industriali, in particolare l’attenzione è qui rivolta alle applicazioni dell’industria tessile e dei materiali compositi.

La principale distinzione che viene fatta è quella tra le resine termoplastiche e quelle termoindurenti.

Le resine termoplastiche sono polimeri lineari o ramificati che possono essere fusi fornendo loro una appropriata quantità di calore; durante la fase di plastificazione non subiscono alcuna variazione a livello chimico. Possono essere forgiati (e ri-forgiati) in qualsiasi forma usando delle tecniche quali lo stampaggio ad iniezione e l’estrusione. Tramite il calore si ottiene la fusione di questi polimeri che, successivamente, a contatto con le pareti dello stampo, solidificano per raffreddamento.

Il processo di fusione/solidificazione del materiale può essere ripetuto senza apportare variazioni notevoli alle prestazioni della resina.

Generalmente i polimeri termoplastici non cristallizzano facilmente, a seguito di un raffreddamento, poiché le catene polimeriche sono molto aggrovigliate. Anche quelli che cristallizzano non formano mai dei materiali perfettamente cristallini, bensì semicristallini caratterizzati da zone cristalline e zone amorfe. Le regioni cristalline di questi materiali sono caratterizzate dalla loro temperatura di fusione (Tm, dall’inglese "melting temperature").

Le resine amorfe, e le regioni amorfe delle resine parzialmente cristalline, sono caratterizzate dalla loro temperatura di transizione vetrosa (Tg, dall’inglese "glass transition temperature"), temperatura alla quale si trasformano abbastanza bruscamente dallo stato vetroso (molto rigido) a quello gommoso (molto più morbido). Questa transizione coincide con l’attivazione di alcuni moti delle macromolecole che compongono il materiale. Al di sotto della Tg le catene polimeriche hanno difficoltà a muoversi e hanno posizioni molto bloccate.

Sia la temperatura di fusione sia quella di transizione vetrosa aumentano all’aumentare della rigidità delle catene che compongono il materiale e all’aumentare delle forze di interazione intermolecolari.

Le resine termoindurenti sono materiali molto rigidi costituiti da polimeri reticolati nei quali il moto delle catene polimeriche è fortemente limitato dall’elevato numero di reticolazioni esistenti. Durante la fase di trasformazione subiscono una modificazione chimica irreversibile.

Le resine di questo tipo, sotto l'azione del calore nella fase iniziale, fondono (diventano plastiche) e, successivamente, sempre per effetto del calore, solidificano. Le resine termoindurenti sono intrattabili una volta che siano state formate e degradano invece di fondere a seguito dell’applicazione di calore. Contrariamente alle resine termoplastiche, quindi, non presentano la possibilità di subire numerosi processi di formatura durante il loro utilizzo.

Classificazione delle resine

Esistono numerose famiglie di resine che si differenziano le une dalle altre in base alla diversa composizione chimica, che ha ripercussioni sulle proprietà fisico-chimiche dei materiali.

Diamo qui di seguito un elenco delle principali famiglie di resine:

termoindurenti

  • fenoliche
  • ammidiche
  • epossidiche
  • poliuretaniche
  • poliesteriche insature
  • siliconiche
  • alchidiche

terpolastiche

  • acriliche
  • policarbonati
  • poliesteriche termoplastiche
  • vinilesteriche
  • polifluoruri di vinile
  • poliolefiniche (polietilene, polipropilene)

Caratteristiche salienti delle varie famiglie di resine.

Resine termoindurenti

Queste resine subiscono durante il processo di produzione delle trasformazioni chimiche irreversibili che le rendono insolubili e infusibili. Questa trasformazione è associata alla creazione di reticolazioni covalenti, durante il processo di polimerizzazione.

Le più importanti resine termoindurenti, sia da un punto di vista strettamente storico sia dal punto di vista delle attuali applicazioni commerciali, sono quelle ottenute a partire da reazioni di policondensazione della formaldeide con il fenolo (resine fenoliche) o con l'urea o la melamina (resine ammidiche). Altre importanti classi di resine termoindurenti sono le resine epossidiche, le schiume uretaniche, le resine poliesteriche insature, le resine siliconiche, le resine alchidiche e altre di minore importanza.

Resine fenoliche

Sono prodotte a partire dalla reazione della formaldeide con il fenolo per dare dei prodotti di condensazione. La formaldeide è la più reattiva ed è l'unica utilizzata a livello industriale. La reazione è sempre svolta in presenza di catalizzatori: questi possono essere sia acidi sia basi e la loro scelta ha un ruolo determinante, insieme al rapporto molare dei reagenti, sulla natura dei prodotti della reazione.

Il primo passo della reazione consiste nella produzione di composti noti come derivati metilici.

Questi prodotti che possono essere considerati come le unità monomeriche per la successiva fase di polimerizzazione, si formano più facilmente in condizione di neutralità o in ambiente alcalino. Se l'ambiente in cui si svolge la reazione è acido, e se il rapporto molare tra la formaldeide e il fenolo è minore di uno, i derivati metilici reagiscono con delle reazioni di condensazione con i fenoli a dare inizialmente il diidrossifenilmetano e, in seguito ad ulteriori condensazioni e formazioni di ponti metilici, dei polimeri lineari (con massa molecolare molto ridotta) chiamati "novolacs" in cui i legami in posizione para e orto sono disposti in maniera casuale. Questi materiali non reagiscono ulteriormente tra di loro a dare delle resine reticolate, ma devono eventualmente essere fatti reagire con altra formaldeide in modo da portare il rapporto tra quest’ultima e il fenolo sopra l’unità.

In presenza di un ambiente alcalino e di una maggiore quantità di formaldeide, i fenoli metilati possono reagire o attraverso la formazione di legami metilici o attraverso la formazione di legami eterici. In questo secondo caso è necessaria una successiva perdita di una molecola di formaldeide con la contestuale formazione di un ponte metile.

Prodotti di questo tipo, solubili e fusibili ma contenenti gruppi alcolici, sono detti resoli. Se la reazione che porta alla loro produzione è portata ulteriormente avanti, un grande numero di nuclei fenolici può condensare a produrre una reticolazione nel polimero.

La formazione di resoli e novolacs, rispettivamente, porta alla formazione di resine fenoliche attraverso processi detti ad uno o a due stadi.

In un processo di produzione ad uno stadio, tutti i reagenti necessari per la produzione del polimero finale (ovvero fenolo, formaldeide e catalizzatore) sono posti congiuntamente all’interno di un reattore e fatti reagire insieme. Il rapporto molare tra formaldeide e fenolo è sempre intorno a 1.25:1 e il catalizzatore utilizzato è di tipo alcalino.

Nei processi a due stadi il catalizzatore utilizzato è acido e solo una parte della formaldeide necessaria per la reazione è introdotta nel reattore all’inizio della reazione (in modo da avere un rapporto molare di circa 0.8:1 con il fenolo). La restante formaldeide necessaria per il completamento della reazione viene introdotta solo in seguito sotto forma di esametiltetraammina che si decompone in presenza di calore e umidità, dando luogo a formaldeide e ammoniaca la quale agisce come catalizzatore per il processo di cura.

Le procedure utilizzate per ottenere le resine con processi a uno o a due stadi sono molto simili e vengono perciò utilizzati gli stessi reattori ne due casi. La reazione è esotermica ed è quindi richiesto un continuo raffreddamento del sistema. La formazione del resolo o del novolacs è evidenziata da un aumento della viscosità del materiale. Quando questi prodotti intermedi sono ottenuti, dal sistema viene eliminata (sotto vuoto) l’acqua e ciò che rimane è una resina (detta allo stadio-A) che risulta solubile in solventi organici. Questo materiale è raccolto dal reattore, raffreddato e quindi ridotto in polvere.

A questo punto si introducono rinforzi, coloranti, lubrificanti e (nel caos di reazione a due stadi) esametiltetraammina a sufficienza per ottenere la quantità di formaldeide necessaria per completare la reazione.

Questi reagenti sono fatti passare attraverso dei rulli miscelanti riscaldati all’interno dei quali la reazione procede ulteriormente fino a raggiungere lo stadio-B in cui la resina è virtualmente insolubile in solventi organici ma ancora fusibile attraverso un riscaldamento o un aumento della pressione.

La resina a questo punto è raffreddata e tagliata nella sua forma finale. Lo stadio-C, ovvero il polimero reticolato non più fusibile è ottenuto attraverso il successivo passo produttivo (tipicamente uno stampaggio).

Specialmente quando sono combinate con dei rinforzi appropriati, le resine fenoliche hanno una buona resistenza chimica e termica, una buona rigidità dielettrica e una buona stabilità dimensionale. Materiali prodotti con queste resine hanno una infiammabilità molto bassa, sono molto resistenti al creep e hanno un basso assorbimento dell’umidità.

Fino ad oggi il più ampio utilizzo delle resine fenoliche (quasi il 50% del totale) è stato nel campo degli adesivi termoformanti per compensato.

Un gran numero delle applicazioni industriali delle resine fenoliche sono basate sulle eccellenti proprietà adesive e sulla forza dei legami creati da queste resine.

Resine ammidiche

Le due più importanti classi di resine ammidiche sono i prodotti ottenuti dalla reazione di policondensazione dell’urea e della melamina con la formaldeide. Sono spesso considerate congiuntamente in virtù del fatto che la loro produzione e le loro applicazioni sono molto simili. Le resine melamminiche hanno in generale proprietà migliori ma sono anche più costose.

Sia la melamina, un trimero della cianoammide, sia l’urea reagiscono con la formaldeide, in un primo tempo con reazioni di poliaddizione che danno come prodotti dei composti metilolici e quindi con reazioni di policondensazione molto simili a quelle del fenolo con la formaldeide.

La produzione delle resine ammidiche è molto simile a quella delle resine fenoliche. Dal momento che la resina allo stadio-A è solubile in acqua, è solo parzialmente disidratata e la soluzione acquosa viene usata per impregnare il rinforzo. Queste resine sono molto spesso riempite con cellulosa. L’impregnazione viene eseguita in un miscelatore sotto vuoto e la successiva fase di essiccamento porta la resina nello stadio-B. A questo punto un ulteriore passaggio della resina in un appropriato miscelatore permette di ridurre le particelle della resina alle dimensioni volute.

Un vantaggio delle resine ammidiche rispetto alle resine fenoliche consiste nel fatto che le prime sono trasparenti e non colorate cosicché è possibile produrre, attraverso l’utilizzo di appropriati coloranti, oggetti di colori molto chiari o pastello.

Le proprietà meccaniche delle resine ammidiche sono generalmente migliori di quelle delle resine fenoliche ma la loro resistenza al calore e all’umidità è decisamente peggiore (seppur ancora molto buona, come nel caso di tutte le resine termoindurenti).

Circa i tre quarti delle resine ammidiche sono usate come adesivi per ricoprire compensati e mobilia. Il restante quarto della produzione è diviso tra le resine utilizzate per i trattamenti tessili e quelle utilizzate per i "coatings". Le resine prodotte con la melamina hanno caratteristiche migliori, ma per ragioni di economia sono spesso mescolate con resine prodotte con l’urea. Il riempimento usato per le ultime è sempre la cellulosa mentre per le prime si usa oltre alla cellulosa anche vetro, silice o cotone.

A causa delle loro peggiori proprietà viscoelastiche, le resine prodotte a partire dall’urea sono spesso formate per compressione anche se oggi è abbastanza comune l’utilizzo di formatura ad iniezione per entrambe le famiglie di resine.

Le resine ammidiche alterano le proprietà delle fibre tessili (come, tipicamente, il cotone) migliorando la rigidità, la resistenza allo sfilacciamento, la repellenza all’acqua e abbassando l’infiammabilità.

Resine epossidiche

Le resine epossidiche sono sostanzialmente dei polieteri, ma mantengono questo nome sulla base del materiale di partenza utilizzato per produrle e in virtù della presenza di gruppi epossidici nel materiale immediatamente prima della reticolazione.

La resina epossidica più usata è prodotta attraverso una reazione di policodensazione tra l’epicloroidrina e il defenilpropano. Si utilizza un eccesso di epicloroidrina in modo da assicurare la presenza di gruppi epossidici ad entrambi gli estremi del polimero a bassa massa molecolare (900-3000). In base al peso molecolare questo polimero è un liquido viscoso o un solido fragile alto fondente.

Altre molecole contenenti dei gruppi idrossi, come l’idroquinone, i glicoli e il glicerolo, possono essere utilizzati al posto del difenilpropano mentre non esiste sul mercato alcun prodotto contenente gruppi epossi con prezzo concorrenziale rispetto all’epicloroidrina.

Le resine epossidiche subiscono i processi di cura in presenza di innumerevoli materiali tra cui poliammine, poliammidi, fenol-formaldeide, urea-formaldeide, acidi e anidridi acide. Le reazioni che hanno luogo possono essere reazioni di accoppiamento o di condensazione.

Nel caso delle reazioni con ammine, ad esempio, si ha l’apertura dell’anello epossidico a dare un legame beta-idrossiamminico.

Gli acidi e le anidridi acide reagiscono attraverso l’esterificazione dei gruppi idrossilici secondari presenti sulle resine epossidiche.

Le resine epossidiche possono subire processi di cura anche con polimerizzazione cationica usando come catalizzatori degli acidi di Lewis come il BF3 che forma dei polieteri a partire dai gruppi epossi.

Il principale utilizzo delle resine epossidiche è nel campo dei rivestimenti, in quanto queste resine combinano proprietà di flessibilità, adesione e resistenza chimica praticamente ineguagliabili.

Le resine epossidiche possono essere formate e laminate e permettono di creare articoli in materiale rinforzato con fibra di vetro che hanno caratteristiche meccaniche, elettriche e chimiche migliori di quelli ottenuti utilizzando, ad esempio, i poliesteri insaturi. Soltanto il prezzo degli epossidi impedisce un utilizzo più massiccio di questi materiali.

Le resine epossidiche vengono utilizzate anche come adesivi, schiume e pavimenti industriali.

Schiume Poliuretaniche

I poliuretani sono polimeri contenenti un gruppo NHCOO formati attraverso una reazione tra un diisocianato e un glicole. Nel processo di produzione delle schiume uretaniche, i gruppi isocianato in eccesso reagiscono con l'acqua o con l'acido carbossilico e producono CO2 che gonfia la schiuma contestualmente alla creazione della reticolazione. Dipendentemente dal tipo di componenti di base utilizzati e dipendentemente dal tipo di reticolazione prodotta, le schiume uretaniche possono essere rigide o flessibili.

Le schiume uretaniche sono prodotte in uno processo a passi. A partire da un materiale di base, come ad esempio 1,4-glicole butilenico, si produce un intermedio di reazione nella forma di un polietere di peso molecolare dell'ordine di 1000. Questo intermedio ha due funzionalità chimiche se quella che si vuole ottenere è una schiuma flessibile, mentre ha una funzionalità più elevata se il prodotto che si intende realizzare è una schiuma rigida.

Questo intermedio di reazione è fatto reagire con un diisocianato aromatico a dare un prepolimero che a seguito di reazione con opportuni catalizzatori permette la formazione del polimero finale.

Le schiume uretaniche rigide possono essere utilizzate per rinforzare elementi strutturali sfruttando il peso veramente esiguo di questi elementi. Le caratteristiche micro e mesoscopiche rendono questi materiali anche dei pessimi conduttori i calore

Nell’ultimo decennio si è sviluppata notevolmente la produzione di schiume poliuretaniche attraverso il processo di "reaction injection moulding" nel quale i due monomeri che vanno a formare il polimero finale sono pompati, in proporzioni predeterminate, all’interno di un miscelatore dove vengono miscelati e indirizzati verso l’impianto di formatura vero e proprio che non richiede né temperature né pressioni particolarmente elevate. Il processo di polimerizzazione ha luogo all’interno dell’impianto di formatura.

Resine poliesteriche insature

Le resine poliesteriche hanno un ruolo molto importante all’interno delle resine termoindurenti grazie alla possibilità di variare in modo molto esteso la composizione della resina e il processo di fabbricazione con l’effetto di poter sintonizzare le proprietà delle resine alle esigenze della singola applicazione industriale.

Le resine poliesteriche vengono prodotte a partire da un glicole e un acido i quali vengono mescolati all’interno di un opportuno reattore e producono, attraverso un processo di polimerizzazione a passi, un polimero di peso molecolare 1000-5000 che si trova nello stato di liquido molto viscoso. La viscosità viene abbassata aggiungendo appropriate quantità di monomero. Viene aggiunto al composto anche un inibitore, tipicamente idroquinone, per prevenire una ulteriore indesiderata polimerizzazione. Il composto in questo stato rimane stabile per mesi o per anni e può essere stoccato purché rimanga a temperature sufficientemente basse.

Il processo finale di cura del polimero ha inizio quando al sistema viene aggiunto un opportuno iniziatore che causa la formazione in un primo tempo di gel molto soffice e in seguito, accompagnata dalla produzione di una notevole quantità di calore, la formazione del polimero desiderato.

Tra Le più importanti proprietà dei poliesteri insaturi vanno annoverati la maneggiabilità dei componenti di base, la velocità del processo di polimerizzazione, l’assenza di prodotti di scarto volatili durante la reazione, la stabilità dimensionale e le proprietà fisiche ed elettriche generalmente buone.

La insaturazione del poliestere è generalmente compensata attraverso l’inclusione di anidride maleica. Ai componenti descritti finora viene inoltre aggiunto un acido saturo o una anidride satura. Una maggiore percentuale di acido insaturo dà luogo ad una resina più reattiva caratterizzata da una elevata rigidità meccanica ad alta temperatura. La presenza di un’elevata percentuale di acido saturo, per contro, dà luogo ad una resina con proprietà meccaniche meno spinte ma permette di avere reazioni di polimerizzazione meno esotermiche. Il glicole propilenico è il componente diidrossido più comunemente usato per la produzione del polimero mentre lo stirene è il componente più usato per produrre la reticolazione all’interno del polimero.

Resine siliconiche

Come il carbonio, anche il silicio ha la capacità di formare legami covalenti. Gli idrosilani fino al Si6H14 sono presenti in natura: all’aumentare del numero di atomi di silicio presenti nella catena il legame silicio silicio diviene instabile e quindi non esistono polimeri costruiti a partire da idrosilani.

I polimeri a base di silicio noti commercialmente sono costruiti a partire da legami silicio-ossigeno-silicio che risulta molto più stabile del semplice legame silicio-silicio. Un’altra caratteristica che differenzia il silicio dal carbonio è l’incapacità del primo, al contrario del secondo, a formare doppi o tripli legami. Questo implica la impossibilità di formare polimeri siliconici se non attraverso reazioni di policondensazione.

I polimeri siliconici sono prodotti a partire da intermedi organosiliconici di formula generale SiRnX4-n dove R è un gruppo alchilico o arilico e X è un gruppo che può essere idrolizzato a dare un SiOH. Questi intermedi di reazione sono prodotti a partire dal silicio che viene a sua volta prodotto dalla riduzione del quarzo in opportuni forni. Gli intermedi sono prodotti in una sintesi in cui i gruppi R ed X sono attaccati in modo simultaneo al silicio attraverso una reazione che avviene a temperature molto elevate in presenza di catalizzatori metallici.

I prodotti che si possono ottenere da reazioni di questo tipo sono molteplici e variano dai liquidi alle cere e ai grassi fino alle resine e alle gomme.

Al contrario di quanto avviene nel caso delle gomme siliconiche o dei fluidi siliconici, nel caso delle resine siliconiche gli atomi di silicio contengono al più un sostituente organico. Il processo di reticolazione, che risulta abbastanza delicato, permette di ricavare resine caratterizzate da rigidità estremamente diverse.

Le resine siliconiche sono usate prevalentemente come vernici isolanti e come agenti impregnanti e incapsulanti. Un vasto uso di questi materiali viene fatto anche nelle vernici industriali.

Resine alchidiche

Le resine alchidiche sono poliesteri usati prevalentemente nel campo delle vernici organiche. Tra tutte le composizioni possibili quella sicuramente più comune è basata sull'utilizzo di anidride ptalica e glicerolo. Molte resine alchidiche sono modificate attraverso l'addizione di acidi grassi ricavati da oli vegetali o animali. Se questi acidi sono insaturi le resine che ne risultano sono del tipo che si asciuga all'aria.

Possono essere suddivise in due famiglie: le resine "lacquer", che prevedono nella fase di polimerizzazione soltanto la evaporazione del solvente, e quelle "varnish" in cui la polimerizzazione è accompagnata da reazioni chimiche tra i componenti.

Resine termoplastiche

Resine acriliche

I principali processi commerciali utilizzati per la produzione degli esteri acrilati sono basati sull’utilizzo della cianoidrina etilenica. Il metilmetaacrilato è prodotto attraverso il riscaldamento della acetoncianoidrina in presenza di acido solforico a formare il solfato di meataacrilammide. Quest’ultima reagisce con l’acqua a dare il metil metacrilato. Fogli di polimetilmetacrilato vengono prodotti attraverso processi di estrusione.

Il polimetilmetacrilato è un materiale termoplastico lineare con una struttura amorfa a causa dell’assenza di stereoregolarità nella struttura delle catene.

Copolimeri prodotti a partire da metilmetacrilato, etilacrilato e monomeri contenenti gruppi funzionali reattivi sono utilizzati spesso anche come resine termoindurenti. Le funzionalità possono essere derivate da dei gruppi ammidici, acidi, idrossilici o ossiranici.

Esistono molti altri polimeri acrilici come i poliacrilati, il poliacidoacrilico e il poliacidometacrilico.

Grande importanza viene rivestita dai cianoacrilati. I monomeri di cianoacrilato rappresentano un adesivo molto potente. L’adesione ha luogo quando si crea un sottile strato di materiale tra le due superfici che devono essere legate assieme. La presenza di tracce di materiali basici (anche deboli come gli alcool o l’acqua) è sufficiente a catalizzare un processo di polimerizzazione anionica. L’adesione discende in parte dalla creazione di un legame meccanico tra il polimero e le superfici interessate e in parte dalla formazione di forze di legame secondario molto forti.

Policarbonati

Un policarbonato, caratterizzato dalla presenza del gruppo -OCOO-, può essere prodotto a partire dl fosgene e dal bisfenolo A o attraverso uno scambio esterico tra bisfenolo A e difenilcarbonato.

Come il nylon e le resine polieteri, questo polimero è un materiale termoplastico cristallino caratterizzato da proprietà meccaniche molto buone. Ha una resistenza all’impatto incredibilmente alta anche alle basse temperature che deve essere imputato alla presenza di un certo grado di disordine nella regione cristallina e un parziale ordinamento nelle regioni amorfe.

È caratterizzato da una bassa tendenza ad assorbire l’umidità atmosferica, una buona resistenza al calore e una buona stabilità termica ed ossidativa quando si trova allo stato fuso.

Può essere processato con le normali tecniche di stampaggio a soffiatura e di estrusione.

Poliesteri termoplastiche

Il basso punto di fusione e la elevata solubilità hanno portato a non considerare i poliesteri alifatici lineari come candidati per la produzione di fibre e di film se non in combinazione con altri materiali. Il più importante materiale di questa categoria è rappresentato dal polietileneteraftalato che è noto soprattutto per l’utilizzo che se ne fa nel soffiaggio delle bottiglie.

La produzione di poliesteri termoplastici ad elevato peso molecolare non è particolarmente semplice perché necessita dell’utilizzo di acidi aromatici dibasici i quali sono materiali molto difficili da purificare a causa della bassa solubilità e dell’elevato punto di fusione. La reazione è portata avanti sfruttando le reazioni di interscambio esteriche che risultano essere molto rapide. L’acido, come ad esempio l’acido tereftalico, viene convertito in un dimetilestere che può essere facilmente purificato attraverso processi di distillazione o cristallizzazione. Questo acido viene poi fatto reagire con un glicole attraverso una reazione di intescambio esterico. Nella pratica si usa un glicole a basso peso molecolare e la reazione avviene in due passi. Nel primo passo viene prodotto un poliestere a basso peso molecolare in un ambiente in cui è presente del glicole in eccesso. Quindi viene alzata la temperatura e questo provoca la condensazione delle molecole attraverso reazioni di interscambio esterico con perdita di molecole di glicole.

Il polimero più importante di questa famiglia è sicuramente il polietileneteraftalato che presenta delle proprietà meccaniche particolarmente interessanti che lo rendono adatto ad essere utilizzato sia in forma di fibra, sia in oggetti soffiati come le bottiglie per liquidi, sia come film per rivestimenti ed applicazioni simili.

Vinilesteriche

Il polimero più ampiamente utilizzato tra quelli prodotti a partire da un vinilestere è sicuramente il polivinilacetato il quale è utilizzato non solo come prodotto finito ma anche come precursore per altri polimeri che non possono essere prodotti con un processo di polimerizzazione diretto come i polivinilalcoli e i polivinilacetali.

Il vinilacetato è preparato attraverso la addizione in fase vapore dell’acido acetico all’acetilene.

La polimerizzazione in bulk del vinilacetato è difficile da controllare ad elevati gradi di conversione e inoltre le proprietà del polimero possono deteriorarsi a causa della ramificazione delle catene. Il processo di polimerizzazione in bulk o in soluzione di solito viene interrotto quando il grado di conversione è intorno al 20-50% e a questo punto il monomero viene eliminato attraverso un processo di distillazione. Se è presente un solvente il polimero può essere fatto reagire ulteriormente a dare uno dei polimeri che abbiamo considerato in precedenza (polivinilalcoli o polivinilacetali). La polimerizzazione può essere continua o a batch.

Questo polimero è atattico e quindi amorfo; polimeri stereoregolari di questa famiglia non sono stati prodotti commercialmente. Il polivinilacetato ha una temperatura di transizione vetrosa che risulta leggermente superiore alla temperatura ambiente (29°). Questo in alcuni casi può rappresentare un problema in quanto le proprietà meccaniche del materiale, ad esempio, sono fortemente influenzate da variazioni anche limitate della temperatura. Il polivinilacetato è ampiamente utilizzato nell’ambito delle vernici ma anche nel campo delle resine adesive sia del tipo in emulsione sia del tipo hot-melt.

Polifluoruri di vinile

Il polifluoruro di vinile è una plastica ad elevato grado di cristallinità. Disponibile commercialmente nella forma di film flessibili ma molto resistenti. Questo polimero ha una incredibile resistenza agli agenti chimici e agli agenti atmosferici in particolare.

È estremamente resistente alla degradazione termica e mantiene proprietà meccaniche accettabili da —180°C a 150°C. Ha una permeabilità molto bassa alla maggiore parte dei gas e vapori e ha un ottima resistenza all’abrasione e all’ossidazione.

Questo polimero ha un uso molto esteso come ricoprimento di superfici nell’industria delle costruzioni.

Poliolefiniche

Tra i materiali poliolefinici i due che rivestono sicuramente il ruolo più importante sono il polietilene e il polipropilene.

Il primo polimero commerciale prodotto a partire dall’etilene è stato sicuramente il polietilene ramificato, comunemente indicato come polietilene a bassa densità o ad alta pressione per distinguerlo dal polimero essenzialmente lineare che descriveremo successivamente.

L’etilene è prodotto a partire dal cracking di una grande varietà di idrocarburi dai derivati dell’etano al gas naturale al petrolio. I polimeri di elevato peso molecolare prodotti a partire dall’etilene vengono realizzati a pressioni comprese tra le 1000 e le 3000 atmosfere e a temperature dell’ordine di 250°C. La presenza dell’ossigeno può provocare l’iniziazione della reazione di polimerizzazione molto rapidamente. Sono stati provati anche numerosi altri iniziatori della reazione. Tra l’altro va osservato che la reazione è altamente esotermica e si deve prestare attenzione ad evitare esplosioni che si sono verificate in passato. La polimerizzazione viene portata avanti utilizzando il benzene o il clorobenzene come solvente: nelle condizioni di pressione e temperature che si usano sia il monomero che il polimero si sciolgono completamente in questi solventi e la reazione di polimerizzazione è una pura reazione di polimerizzazione in soluzione. Processi di polimerizzazione batch sono stati realizzati spesso poiché è abbastanza facile ottenere dei risultati riproducibili anche se in generale si preferisce utilizzare dei sistemi di polimerizzazione continua.

Il polietilene a bassa densità è un solido parzialmente cristallino (50-60%) che fonde intorno ai 115°C ed ha una densità di circa 0.91-0.94.

È solubile in numerosi solventi sopra i 100°C ma è difficile trovare solventi in cui sia solubile alla temperatura ambiente. La spettroscopia infrarossa ha permesso di mettere in evidenza la presenza di catene ramificate. Queste catene sono responsabili della distribuzione molto allargata della massa del campione che si è messa in evidenza sperimentalmente. Il rapporto tra la massa media ponderale e quella numerale può essere pari anche a 20 o a 50.

Le proprietà fisico-chimiche del polietilene a bassa densità sono fortemente dipendenti da tre variabili: il peso molecolare, la distribuzione del peso molecolare e la conformazione delle ramificazioni delle catene.

La presenza di ramificazioni più o meno lunghe ha un effetto molto sensibile, ad esempio, sul grado di cristallinità del polimero e quindi anche sulla sua densità e su tutte quelle proprietà (pensiamo anche soltanto alle caratteristiche meccaniche) che dipendono dal grado di cristallinità.

Anche l’effetto del peso molecolare si fa sentire sulle proprietà meccaniche, in particolare su quelle che sono legate ad elevate deformazioni del campione.

Il polietilene è sostanzialmente inerte rispetto a tutti i possibili agenti chimici con cui può essere attaccato. Ha un ottima resistenza agli acidi.

I principali campi di applicazione di questi polimeri sono quelli in cui è richiesta l’utilizzo del materiale in forma di film. Il principale utilizzo è quello nell’industria dell’imballaggio, da quello di prodotti alimentari a quello di prodotti agricoli.

Il polietilene è utilizzato molto spesso anche nel campo della protezione e dell’isolamento dei cavi elettrici in quanto risulta un ottimo isolante elettrico

Il polietilene ad elevata densità, o lineare, è prodotto in modo diverso rispetto a quanto avviene per il polietilene a bassa densità.

La polimerizzazione richiede la presenza di un catalizzatore nella forma di una dispersione colloidale prodotta a partire da un composto di alluminio e alcano e da un cloruro di titanio in un solvente che può essere l’eptano. L’etilene è aggiunto in una condizione di bassa pressione alla temperatura di 75-80°C. Il calore di polimerizzazione viene rimosso attraverso un raffreddamento. Il polimero si forma come un granulato insolubile nel solvente utilizzato. Al completamento della reazione il solvente viene eliminato introducendo nel reattore acqua o alcool e il polimero viene separato attraverso un processo di centrifugazione ed essiccazione.

Il polietilene ad alta densità è un materiale a cristallinità elevata (prossima al90%) contenente meno di un gruppo laterale ogni 200 atomi di carbone della catena lineare principale. Il punto di fusione è intorno ai 135°C e la densità varia tra 0.95 e 0.98.

La più elevata cristallinità di questo tipo di polietilene rispetto a quello a bassa densità è causa della profonda diversità riscontrata nelle proprietà chimico-fisiche. Questo polietilene è molto più rigido di quello a bassa densità, ha uno sforzo a rottura e un modulo in tensione decisamente più elevato oltre ad un punto di fusione molto alto. Le proprietà di inerzia chimica e di scarsa permeabilità ai gas, tipici del polietilene a bassa densità, sono tipiche anche del polietilene lineare e in alcuni casi risultano migliori di quelle del polietilene ramificato.

Questo tipo di polietilene è utilizzato prevalentemente nella produzione di bottiglie che servono a contenere liquidi (anche acidi in virtù dell’inerzia chimica del polietilene). Una grande percentuale del polietilene prodotto ogni anno è comunque utilizzato anche sotto forma di film o fogli oltre che sotto forma di guaine di protezione dei cavi elettrici in virtù delle ottime capacità di isolamento.

Il polipropilene viene prodotto attraverso la polimerizzazione del propilene, prodotto a partire dal cracking di idrocarburi di elevato peso molecolare, in un ambiente del tutto simile a quello del polietilene lineare. Il polipropilene può essere prodotto sia in forma isotattica che atattica o sindiotattica. La cristallizzabilità del polipropilene isotattico fa sì che tale polimero sia l’unico per cui esiste un interesse commerciale. Il polipropilene isotattico è un polimero altamente cristallino con il punto di fusione a 165°C. Rappresenta il più leggero tra i polimeri poliolefinici avendo una densità di 0.905.

L’elevato grado cristallino conferisce a questo polimero proprietà meccaniche, come modulo elastico, rigidità e resistenza, veramente elevate. La resistenza all’impatto a bassa temperatura è abbastanza sensibile alle condizioni in cui il polimero è stato fabbricato e a quelle in cui vene svolta la prova di resistenza.

Questa sensibilità deriva dalla presenza di una transizione a intorno a 0°C che provoca una notevole perdita di rigidità da parte del materiale in corrispondenza di tale temperatura. Nel polietilene ad alta densità, invece, la transizione dominante è una transizione di tipo b che ha luogo ad una temperatura molto inferiore. Questo implica che la fragilità del materiale aumenta a temperature molto superiori per il polipropilene rispetto a quanto avviene per il polietilene. Per evitare problemi e limitazioni legati alla fragilità del materiale si fa un largo uso di copolimeri o statistici o a blocchi prodotti a partire da etilene e propilene. I copolimeri a blocchi sono quelli che hanno una maggiore resistenza all’impatto e sono usati in tutte quelle applicazioni prodotte attraverso un processo di formatura per soffiaggio.

La inerzia chimica del polipropilene è molto più bassa di quella del polietilene e per poter usare il polipropilene in applicazioni sottoposte alle condizioni atmosferiche è necessario che il materiale venga trattato con degli antiossidanti e con dei materiali che assorbano i raggi ultravioletti per prevenire il possibile deterioramento del materiale legato all’interazione con l’atmosfera e con la radiazione solare.

Il polipropilene viene utilizzato soprattutto in applicazioni in cui i prodotti devono essere stampati per soffiatura, usati sotto forma di fibra o sotto forma di film.

Proprietà delle resine

Per ciò che riguarda le proprietà delle resine necessarie e sufficienti a descrivere completamente le caratteristiche di questi materiali, diamo qui di seguito un elenco.

Le proprietà elencate sono di vario tipo (da proprietà chimico-fisiche a proprietà che potremmo definire commerciali). Successivamente viene esemplificata la struttura di una "scheda" tipica che possa dare una caratterizzazione tipica dei vari tipi di resine utilizzabili all’interno di materiali compositi.

Elenco proprietà:

  • % di elementi volatili
  • viscosità
  • densità
  • flash point
  • pH
  • acidità massima
  • contenuto massimo di acqua
  • tempo di gelo
  • peso specifico
  • modulo elastico (in tensione, torsione e compressione)
  • sforzo di snervamento (in tensione, torsione e compressione)
  • allungamento a rottura (in tensione, torsione e compressione)
  • resistenza all’impatto
  • temperatura di transizione vetrosa
  • temperatura di fusione
  • assorbimento dell'umidità
  • modulo elastico specifico
  • costo al kg
  • tempo di stoccaggio massimo alle varie temperature
  • principali produttori
  • nomi commerciali

 

Le resine termoindurenti sono caratterizzate, necessariamente, dai seguenti parametri:

    Nome commerciale

    Produttore

    Famiglia del polimero

    Viscosità

    Densità

    Apparenza

    Flash point

    Tossicità

    % di elementi volatili

    Metodologie di polimerizzazione

    Metodologie di lavorazione e formatura

    Settori di applicazione

    Prezzo al kg

    Tempo di stoccaggio massimo alle varie temperature

    Possono essere inoltre utili:

    Tg del polimero

    Formula di struttura

    Colore

    Contenuto d’acqua

    Proprietà meccaniche in tensione (modulo elastico, sforzo a rottura, deformazione a rottura)

    Proprietà meccaniche in flessione (modulo elastico, sforzo a rottura, deformazione a rottura)

    Resistenza all’impatto

    Compatibilità con le fibre tessili

Le resine termoplastiche sono caratterizzate, necessariamente, dai seguenti parametri:

    Nome commerciale

    Produttore

    Famiglia del polimero

    Tg del polimero

    Flash point

    Tossicità

    % di elementi volatili

    Metodologie di polimerizzazione

    Metodologie di lavorazione e formatura

    Settori di applicazione

    Prezzo al kg

    Possono essere inoltre utili:

    Formula di struttura

    Colore

    Valore acido massimo

    Proprietà meccaniche in tensione (modulo elastico, sforzo a rottura, deformazione a rottura)

    Proprietà meccaniche in flessione (modulo elastico, sforzo a rottura, deformazione a rottura)

    Resistenza all’impatto

    Compatibilità con le fibre tessili

Le prove di caratterizzazione dei polimeri

Le proprietà dei polimeri che risultano importanti al fine di una loro completa caratterizzazione, devono anche essere misurate con procedure adeguate.

Le norme ASTM (American Society for Testing and Materials) comprendono quelle relative alla maggiore parte delle proprietà dei polimeri. E’ a queste norme che ci si riferisce comunemente per ottenere le specifiche dei vari test. D’altronde si deve tenere conto che la normativa è un insieme di regole in evoluzione e nessuna procedura è completamente corretta per ogni classe di polimeri.

Le proprietà dei polimeri dipendono in maniera sensibile dal tempo, dalla temperatura e dalla velocità con cui viene applicato uno stato di sollecitazione meccanica. Quindi i risultati di una prova specifica non risultano necessariamente corretti per caratterizzare il funzionamento del polimero in una qualsiasi situazione di lavoro reale.

Le proprietà del polimero (e, in particolare, quelle della resina) possono essere utilizzate nella fase iniziale di progettazione della particolare applicazione in modo da individuare i possibili materiali candidati a costituire la struttura in progettazione.

Il condizionamento ambientale dei polimeri sotto analisi è molto importante nell’ottica della produzione di risultati accurati e ripetibili. Per polimeri altamente igroscopici e con temperature di transizione basse le condizioni ambientali in cui le misure vengono prodotte risultano estremamente importanti. Per i materiali che assorbono molto poco l’umidità atmosferica e sono molto resistenti alla temperatura, invece, la normale temperatura e le normali variazioni di umidità tipiche di un laboratorio non risultano critiche nella determinazione dei risultati sperimentali.

Il processo di produzione dei campioni utilizzati risulta rappresentare un’ulteriore variabile rispetto alla quale i risultati dei test sono molto sensibili.

Un altro fattore che risulta spesso trascurato è quello rappresentato dal numero di campioni testati. Le norme ASTM richiedono normalmente di eseguire i test su almeno 5 campioni. In realtà un insieme di 5 campioni non risulta statisticamente particolarmente significativo. Specialmente quando si vanno a studiare le caratteristiche meccaniche delle resine (o dei polimeri in generale) un insieme di 20 campioni permette di ottenere risultati molto più significativi . Il maggiore tempo speso nel preparare e testare i campioni è ampiamente giustificato dall’ottenimento di valori più accurati per i parametri fisico-chimici oggetto dello studio che permettono di prendere decisioni molto più ponderate sul design dell’applicazione sotto esame.

Diamo qui di seguito una descrizione delle più comuni tipologie di prove che vengono eseguite su materiali polimerici. L’obiettivo non è certo quello di dare una descrizione accurata di come eseguire tali prove giacché i testi delle norme ASTM risultano più che esaurienti nello spiegare le linee guida degli esperimenti che devono essere eseguiti per portare a termine le prove in oggetto. Il numero della procedura ASTM (o di un’altra agenzia) associata alla prova considerata è fornita quando è possibile.

Infiammabilità

Underwriters Laboratory (UL 94)

La norma UL94 è usata per misurare la velocità a cui un campione standard brucia a seguito dell’applicazione di una fiamma. La dimensione dei campioni è di 12.7mm ´ 127mm con uno spessore che può variare da 0.8mm a 3.2mm. Lo spessore deve sempre essere riportato nei risultati dei test quando si riportano i rate di propagazione della fiamma. I risultati vengono classificati in 5 categorie: HB, V-2, V-1, V-0, e 5V. "HB" significa che una volta infiammato il campione continua a bruciare ma con un rate costante. Muovendosi verso la classe "5V" le caratteristiche diventano sempre più stringenti.

La classe "V-O" è quella che più spesso viene richiesta (ad esempio anche nei package dell’industria microelettronica.

Per ottenere una qualifica "V-0" i risultati devono avere le seguenti caratteristiche:

  1. nessuno dei cinque campioni deve bruciare con presenza di fiamma per più di 10 secondi dopo due successive applicazioni di una fiamma entrambe per 10 secondi;
  2. il tempo totale di presenza della fiamma (5 campioni ´ 2 prove) deve essere inferiore ai 50 secondi;
  3. nessuno dei 5 campioni deve bruciare o sciogliersi fino all’afferraggio;
  4. nessuno dei campioni deve produrre particelle incandescenti che brucino del cotone secco che viene posto in prossimità del campione analizzato;
  5. nessuno dei 5 campioni deve continuare a sciogliersi per più di 30 secondi dopo la rimozione della fiamma esterna.

Le altre categorie sono caratterizzate da richieste simili nella forma ma diverse per ciò che riguarda i tempi di combustione. Il tempo durante il quale viene applicata la fiamma esterna è sempre lo stesso eccetto che per la classe "5V" nella quale il tempo considerato è di 5 secondi e non di 10 secondi.

Questi test permettono di ottenere dei buoni dati che possono essere comparati molto facilmente ma non è detto che rappresentino fedelmente il comportamento dei materiali in presenza di una fiamma o di un incendio reale.

Esistono anche degli standards che riguardano particolari applicazioni come la norma UL 478 "Unità e sistemi di processo elettronico di dati".

Oxygen Index (ASTM D2863)

Lo "oxigen index" rappresenta la percentuale minima di ossigeno che deve essere presente in un gas con composizione simile all’aria in modo da poter supportare la propagazione di una fiamma che bruci il materiale.

In assenza di ritardanti di fiamma, i polimeri variano in maniera molto sensibile la loro capacità di alimentare una fiamma in condizioni atmosferiche normali. Ovviamente la resistenza alla fiamma è basata sulla composizione chimica dei singoli polimeri.

Lo "oxigen index" rappresenta una caratteristica molto importante dei materiali polimerici, e in particolare delle resine, usate nell’industria aeronautica.

Lo "oxigen index" viene misurato ponendo il campione in un flusso di ossigeno e azoto e variando con continuità la frazione di ossigeno fino a che il polimero non è in grado di alimentare la fiamma e farla propagare. Il valore usato come parametro di riferimento è appena inferiore a quello critico.

Proprietà termiche

Heat Deflection Temperature (ASTM D648)

La Heat Deflection Temperature (HDT) è spesso indicata come "DTUL" (Deflection Temperature Under Load, temperatura di flessione sotto carico).

È la temperatura alla quale viene raggiunto un determinato ammontare di deflessione (tipicamente 0.25mm) in corrispondenza di un determinato carico applicato (0.45MPa o 1.8MPa). Il campione è fissato alle due estremità con una distanza tra gli afferraggi pari a 102mm e il peso è concentrato al centro.

La misura viene iniziata a bassa temperatura e la temperatura viene aumentata di 2°C/min. Quando la deflessione al centro del campione raggiunge gli 0.25mm la temperatura viene registrata.

Ci sono numerose caratteristiche che possono alterare significativamente i risultati di queste prove. Lo spessore del campione può variare tra i 3.2 e i 12.7mm Con i campioni più spessi si aumenta la forza in modo da mantenere costante lo sforzo agente sul campione. Però per i campioni più spessi durante la rampa di temperatura c’è un ritardo termico rispetto alle superfici esterne maggiore di quello presente nel caso dei campioni più sottili.

Questo porta spesso a sovrastimare le temperature caratteristiche dei campioni più spessi rispetto a quelle dei campioni più sottili.

La presenza di sforzi interni legati ai processi di formatura e solidificazione dei campioni analizzati è un altro parametro che ha una influenza importante sulla HDT.

Quando si usa la HDT per confrontare le prestazioni termiche delle resine si devono considerare moltissimi parametri: lo spessore del campione, il metodo di fabbricazione, le condizioni in cui il materiale è stato processato e il carico applicato.

Per questa ragione è spesso difficile di trarre conclusioni sulle performance durante l’utilizzo dei materiali a partire da misure di HST. Risulta difficile, inoltre, comparare polimeri con caratteristiche diverse.

Proprietà meccaniche

Modulo elastico, sforzo di snervamento ed allungamento a rottura in tensione (ASTM D638)

La rigidità di un polimero in presenza di una geometria di deformazione di tipo tensile è una proprietà molto importante. È sicuramente vero che il numero di applicazioni in cui delle resine sono utilizzate sotto condizioni di carico uniassiale sono veramente poche, ma d’altronde qualsiasi geometria di deformazione e di carico può essere descritta in termini di componenti uniassiali. In presenza di deformazione in flessione, ad esempio, gli strati più esterni del materiale sono in tensione; nelle geometrie in cui il materiale subisce delle deformazioni di taglio, in direzione ortogonale alla direzione del taglio il materiale è in tensione. Persino in compressione c’è una componente di tensione al centro del campione legata alle caratteristiche meccaniche dei polimeri.

A causa di ciò, le caratteristiche meccaniche in regime tensile sono quelle più spesso utilizzate per dare una caratterizzazione meccanica dei materiali polimerici.

I test meccanici in regime tensile permettono di ottenere il modulo elastico del materiale, oltre allo sforzo di snervamento e alla deformazione e allo sforzo di rottura.

Il modulo è semplicemente il rapporto tra il carico applicato al materiale e la deformazione che ne deriva (considerando soltanto la regione lineare della curva sforzo-deformazione.

L’allungamento è la misura di quanto il materiale può deformarsi nella direzione del carico applicato prima di rompersi. Ci possono essere due fasi durante il processo di rottura di un campione polimerico. Il materiale può prima snervarsi il che corrisponde all’apparizione di una regione della curva carico-deformazione in cui i l carico diminuisce all’aumentare della deformazione. In seguito il valore del carico riprende a crescere fino a portare alla rottura del materiale. Alcuni polimeri (specialmente se sono rinforzati con dei filler, ma questo non è fondamentale) possono anche rompersi prima di essere giunti allo snervamento. Lo snervamento ha luogo quando il carico necessario a vincere le forze secondarie intermolecolari è minore di quello necessario a rompere i legami molecolari. Le molecole cominciano a districarsi e a scorrere le une rispetto alle altre. Il materiale continua ad allungarsi fino a quando non si realizza una orientazione delle molecole sufficiente a far sì che il carico venga contrastato dai legami molecolari primari. A questo punto il carico comincia di nuovo a crescere fino a che la resistenza dei legami primari non è vinta e il materiale si rompe.

I rinforzi presenti nelle resine solitamente prevengono lo scorrimento delle molecole e quindi fanno sì che la rottura avvenga senza che sia raggiunto lo snervamento.

Le prove tensili vengono solitamente eseguite su dei campioni dalla forma caratteristica detta ad "osso di cane". Non sono tanto importanti le dimensioni dei campioni quanto la forma del campione e i rapporti reciproci tra le varie parti. La parte centrale del campione è sempre più sottile delle estremità. Questo assicura il fatto che quasi tutta la deformazione coinvolge la zona più stretta del campione, lontana dagli afferraggi. Questa caratteristica risulta molto importante al fine di ottenere risultati accurati e riproducibili. Le proprietà del campione e in particolare il carico a rottura non devono essere influenzate dal macchinario utilizzato per afferrare i campioni nella macchina per prova materiali. La larghezza della sezione sottile del campione dovrebbe essere la più uniforme possibile compatibilmente con la tecnica di produzione.

La possibilità di ottenere dei dati riproducibili ed accurati dipende dalla distribuzione dello sforzo lungo la sezione del campione: più uniforme è la sezione, più uniforme risulta la distribuzione degli sforzi, più accurati risultano i dati raccolti.

La presenza di difetti superficiali e di contaminanti rappresentano altre cause comuni di errore nelle misure tensili. I difetti superficiali possono facilitare i processi di frattura portando a dei risultati errati in cui, in particolare, si tende a sottovalutare il valore della allungamento a rottura.

Anche il rate di deformazione rappresenta un parametro importante nella determinazione delle proprietà meccaniche dei polimeri.

Un elevato rate di deformazione significa un breve tempo a disposizione delle molecole per mettersi in moto e scivolare le une rispetto alle altre. Questo significa che si ha una bassa deformazione prima della rottura dei legami intermolecolari e un basso valore dello sforzo a rottura. Anche lo sforzo di snervamento e il modulo elastico possono subire importanti variazioni al variare del rate di deformazione.

Quando si confrontano materiali diversi è sempre necessario specificare il rate a cui sono stati condotti gli esperimenti e bisogna che i rate siano adatti ai polimeri che si stanno studiando. La norma ASTM 638 raccomanda le velocità da utilizzare nelle prove di questo tipo.

Può essere utile eseguire all’inizio di una campagna di misure una serie di misure con rate di deformazione differenti in modo da valutare quale sia la velocità migliore per il materiale che si sta analizzando.

Modulo elastico, sforzo di snervamento ed allungamento a rottura in flessione (ASTM D790)

Le proprietà meccaniche in regime di flessione sono più facilmente correlabili con le caratteristiche di parti polimeriche all’interno di applicazioni.

Il modulo elastico in flessione è il parametro più frequentemente utilizzato per confrontare le caratteristiche meccaniche di differenti polimeri.

I campioni utilizzati per questo tipo di prove sono larghi 12.7mm e lunghi 127mm. Lo spessore è tipicamente di 3.2mm. I campioni sono afferrati in posizione orizzontale e caricati al centro della loro lunghezza. Il carico applicato viene aumentato linearmente fino a quando non si raggiunge lo snervamento o la rottura del campione analizzato. Il modulo e lo sforzo a rottura sono calcolati come nelle prove tensili.

Esistono altre due versioni dei test in flessione. La prima è simile al metodo appena descritto tranne che per il fatto che il carico è applicato in due punti a un terzo e due terzi della lunghezza del campione (si parla di geometria di "four point bending" mentre nel caso precedente di "three point bending"). Questo metodo è usato per quei materiali che si flettono troppo facilmente e non potrebbero essere portati a rottura con il metodo precedente.

La seconda versione è detta della "Rigidità in flessione" (ASTM D747). Questo metodo utilizza una geometria del campione a "cantilever". Con questo metodo non è possibile ricavare il modulo elastico del materiale.

Altre proprietà meccaniche dei polimeri

Le proprietà meccaniche in compressione, lo sforzo di taglio e la rigidità sono altre proprietà meccaniche della resina che risultano molto importanti anche in vista della realizzazione di applicazioni industriali. I test associati sono molto più specifici di quelli descritti fino ad ora e sono per lo più legatialle specifiche applicazioni, perdendo così di generalità.

Resistenza all’impatto

Ci sono due tipologie base di prove di resistenza all’impatto: quella del pendolo e quella del peso che cade. Il test di impatto Izod e quello tensile sono i più comuni tra quelli caratterizzati dalla presenza di un pendolo mentre i test Gardner e Falling Dart sono i più comuni tra quelli che prevedono la presenza di un corpo che cade. Esistono poi numerose variazioni sul tema per adattare le prove alle diverse classi di materiali polimerici caratterizzate da differenti proprietà meccaniche.

Le prove di resistenza all’impatto sono estremamente importanti in quanto questa proprietà è una delle più sensibili nei confronti di tutti i meccanismi che provocano la degradazione dei polimeri. Inoltre, molte applicazioni hanno delle stringenti specifiche per quanto riguarda la resistenza all’impatto.

Storicamente il primo tipo di prova utilizzata per valutare le caratteristiche di resistenza all’impatto dei materiali polimerici è quello del pendolo. Il test Izod prende il nome dal metallurgista che lo aveva ideato per caratterizzare i materiali metallici da utilizzare nelle lame da taglio. Grazie alla sua semplicità la prova è stata adattata ai materiali polimerici. I polimeri non permettono di ottenere risultati accurati e riproducibili come i metalli e questo rende il test del pendolo utilizzabile solo in maniera molto limitata per caratterizzare le proprietà di resistenza all’impatto dei materiali polimerici.

Impatto Izod (ASTM D256)

La versione più comune del test Izod per i polimeri è la prova Izod ad intaglio. I campioni utilizzati, tipicamente larghi 12.7mm e spessi dai 3.2mm ai 12.7mm sono intaccati fino ad una profondità di 2.5mm. L’angolo del taglio è di 45° e il raggio del taglio è di 2.5mm.

Il taglio concentra lo sforzo in una regione molto limitata del campione. La resistenza all’impatto è riportata in energia per pollice di taglio.

In questo tipo di test, i campioni sono montati in una morsa. Un pendolo munito di un apposito peso sono fissati sopra il campione da analizzare. Il peso viene alzato e fermato rispetto al campione. L’altezza, e di conseguenza anche la velocità del corpo contundente al momento dell’impatto, sono una costante di questo tipo di prova. Quando il peso viene lasciato, il pendolo oscilla attraversando la regione in cui si trova il campione fissato alla morsa. Durante il processo di rottura del campione, quest’ultimo assorbe energia dal pendolo. L’altezza raggiunta dal peso del pendolo dopo ogni impatto sul corpo da analizzare viene letta su una particolare scala graduata che permette di risalire direttamente dalla altezza all’energia assorbita dal campione.

La resistenza all’impatto del campione sotto esame viene correlata alla diminuzione della quantità di moto del pendolo durante il processo di impatto ripetuto.

Questa geometria è stata utilizzata come standard per le prove di resistenza all’impatto nell’industria della plastica per molti anni. Il problema maggiore di questo tipo di prova è la presenza di molti parametri che possono alterare sensibilmente i risultati quando non vengono adeguatamente controllati. Il parametro più critico è forse rappresentato dal raggio del intaglio provocato dal moto del pendolo durante la prova. Si cerca di simulare condizioni che possano avere luogo durante la vita dell’applicazione che si intende costruire con il materiale sotto analisi.

In questo tipo di prova il raggio dell’intaglio non può essere variato e questo porta a risultati non molto attendibili. Infatti, molti materiali, come i policarbonati e il nylon, mostrano un comportamento molto diverso a seconda che il raggio del taglio sia superiore o inferiore ad un determinato raggio critico. Se il raggio del taglio cade al di sotto di questo valore critico le proprietà del materiale decadono sensibilmente.

In un test con raggio fissato, questa caratteristica può portare ad ottenere dei risultati sbagliati andando a confrontare le proprietà esibite da diverse classi di materiali polimerici.

Anche la tecnica utilizzata per generare il taglio nel campione rappresenta un parametro critico della misura. E’ necessario utilizzare particolari macchinari che risultano piuttosto complessi. In una prova reale condotta su una resina della famiglia dei policarbonati è stato possibile cambiare il valore della resistenza all’impatto di un fattore 10 semplicemente cambiando alcuni parametri legati alla rotazione di alcuna parti della macchina utilizzata per realizzare la misura.

Quando si usano lame rotanti se il numero di giri è elevato può provocare un sovrariscaldamento del polimero nella zona del taglio causando una precoce degradazione delle proprietà del polimero. Questo porta ad un impoverimento delle proprietà di resistenza poiché facilmente dalla regione del taglio possono dipartirsi delle cricche che portano alla precoce rottura del campione sotto analisi.

Per ottimizzare la ripetibilità di queste prove è veramente necessario controllare al meglio tutti i parametri della misura. Normalmente si raccomanda di usare questo tipo di prova solo per confrontare le proprietà di diversi polimeri e non per trarre conclusioni sul possibile comportamento dei materiali in una applicazione reale.

Il metodo Charpy è una variante del metodo Izod ed è descritto all’interno della stessa norma ASTM come metodo b. In questo metodo il campione è mantenuto orizzontale su due supporti con una lunghezza di 95.3mm. Il pendolo con una testa a martello colpisce il campione al centro durante il suo moto oscillatorio. L’energia necessaria per provocare la rottura del campione è misurata come ne l caso delle prove Izod. Il metodo Charpy non è utilizzato molto spesso per le difficoltà di realizzazione.

Impatto Tensile (ASTM D1822)

La prova di impatto tensile è un tipo particolare di impatto con pendolo e può essere eseguita con la stessa strumentazione utilizzata nelle prove Izod.

I campioni utilizzati sono simili a quelli utilizzati nelle prove tensili. Esistono due possibili tipi di campioni ed è molto importante specificare quale delle due geometrie è stata utilizzata quando si riportano i risultati delle prove che si sono effettuate.

I campioni sono montati nella testa di un pendolo progettato appositamente. Una delle due estremità è fissata al pendolo mentre l’altra è bloccata da un afferraggio che risulta completamente libera dagli afferraggi.

Quando il pendolo oscilla verso il basso c’è un’incudine in cima all’arco di rotazione che fa sì che il pendolo possa passare oltre il campione eccetto che per quanto riguarda l’afferraggio.

La quantità di moto del pendolo e l’improvviso blocco dell’afferraggio fanno sì che il camione venga strappato nella regione centrale. Il pendolo che a questo punto afferra soltanto metà campione (l’altra metà si è strappata) continua a ruotare e si registra l’altezza a cui giunge durante il suo moto oscillatorio. La differenza di quantità di moto tra un pendolo privo di qualsivoglia impedimento e uno che si muove dopo aver provocato la rottura di un campione viene utilizzata per calcolare la resistenza all’impatto che viene definita in unità di forza su superficie.

Questo tipo di prova rappresenta una valida alternativa al metodo Izod in quanto elimina la dipendenza dal tipo di taglio anche se introduce altre importanti variabili. L’influenza delle condizioni in cui il campione è stato stampato diviene molto importante a causa del valore molto basso della sezione del campione.

La geometria del campione rende ovviamente il test unidirezionale e questo non permette di simulare la maggiore parte delle richieste di impatto nelle applicazioni reali. L’area di rottura può essere disposta ovunque all’interno del campione: ogni difetto superficiale e ogni inclusione di materiale diverso può essere causa di una sottostima della resistenza all’impatto del materiale sotto esame.

Questo tipo di prova non permette di distinguere tra polimeri ad elevato modulo elastico e polimeri ad elevata allungamento. Campioni appartenenti a queste due categorie possono dare dei risultati simili pur avendo poi un comportamento molto diverso una volta inseriti all’interno di un’applicazione reale.

Questo tipo di misura non è raccomandato come procedura di ispezione di resine né come metodo per classificare le resine in base alle loro proprietà meccaniche.

Impatto con corpo in caduta (o a goccia) (ASTM D3029)

Nelle prove di impatto Gardner, un peso con una punta arrotondata è fatto cadere su un campione piatto che è posizionato sopra una apertura circolare. Il peso è tipicamente cilindrico e viene fatto cadere all’interno di un tubo in modo da preservare l’ortogonalità rispetto all’orientazione del campione.

In altri tipi di misura, il peso può essere libero oppure vincolato da due guide. Il peso o la quota iniziale del corpo che viene lanciato viene variato in modo da alterare l’energia associata all’impatto. I vantaggi e gli svantaggi delle due procedure (variazione del peso o della quota iniziale) sono simili.

Questo tipo di misura ha numerosi vantaggi rispetto agli altri metodi:

  1. è applicabile per campioni stampati, parti stampate e/o sezioni di parti stampate;
  2. è unidirezionale. Non esiste una direzione preferenziale lungo la quale avviene il fallimento del campione. Le fratture si originano nel punto più debole del campione e propagano da lì verso il resto del campione;
  3. il fallimento del campione è facilmente definibile in termini di deformazione, inizio della cricca o cedimento completo del campione a seconda di quelle che sono le necessità particolari.

Tutti questi fattori rendono questo tipo di misura di impatto più adatte a simulare le condizioni di impatto che i materiali incontrano durante la vita reale delle applicazioni.

Così come avviene nel caso delle altre prove di impatto, queste prove hanno anche alcuni limiti piuttosto importanti. La procedura è incrementale (si cambia progressivamente il peso o la quota iniziale del corpo utilizzato per provocare l’impatto) e questo richiede la rottura di un numero elevato di campioni. Il rate di variazione di questi parametri è arbitrario così come risulta arbitraria la scelta della forma del proiettile utilizzato. Anche la scelta tra la variazione dell’altezza del campione e quella della massa del campione risulta piuttosto importante. Lanciare un corpo con massa di 1kg da un’altezza di 2m o un corpo di 2kg da 1m produce una identica quantità di energia di impatto ma il comportamento del materiale può essere abbastanza differente nei due casi.

Anche in presenza di queste importanti limitazioni, questo tipo di prova di impatto rimane la preferita nei test di laboratorio ed è il metodo che viene sempre raccomandato.

Un elemento di forte "appeal" è rappresentato dalla possibilità di usare parti di applicazioni reali come campioni da analizzare.

Test di impatto automatizzati

Tutte le prove di impatto possono essere migliorate utilizzando processi di automatizzazione. I migliori sistemi prevedono la registrazione della curva carico contro tempo o carico contro deformazione per tutta la durata della misura di impatto. Questo permette di ottenere una rappresentazione più accurata del comportamento del materiale analizzato rispetto al singolo valore numerico ottenibile con metodi di registrazione più elementari. Ovviamente le variabili associate alla misura rimangono importanti e il loro effetto sui risultati non è diminuito.

Prove di resistenza chimica

Non ci sono procedure standard per misurare la resistenza delle resine nei confronti dell’attacco da parte di agenti chimici. Ciò è ovviamente legato al numero enorme di polimeri e di agenti chimici che esistono e che hanno caratteristiche spesso estremamamente diverse.

Per evitare spiacevoli e pericolosi fallimenti dei materiali analizzati, è necessario che la prova venga condotta nelle peggiori condizioni possibili.

La temperatura, lo stato di sollecitazione meccanica e il tempo sono dei parametri importanti che concorrono a determinare la resistenza di una resina agli agenti chimici.

Gli effetti degli attacchi chimici comprendono l’espansione, la degradazione delle caratteristiche esterne, la formazione di cricche e la dissoluzione.

Durante il processo di selezione di una resina per una determinata applicazione il primo passo dovrebbe essere rappresentato dalla ricerca del materiale bibliografico prodotto dalle aziende produttrici delle resine stesse.

I più grandi produttori di resine spesso sono in grado di fornire dati sulla compatibilità dei loro prodotti con un elevato numero di prodotti chimici in numerose condizioni sperimentali.

Questo può permettere di scremare già inizialmente i polimeri che sono presi in considerazione per la realizzazione della applicazione.

Se non si conoscono le condizioni di sollecitazione meccanica in cui il polimero dovrà lavorare è necessario eseguire le prove di compatibilità chimica nelle peggiori condizioni possibili in modo da poter essere sicuri del comportamento del materiale durante la vita reale.

Le temperature non dovrebbero invece essere troppo superiori a quelle tipiche delle condizioni di utilizzo poiché le transizioni che il polimero può subire (pensiamo a quella vetrosa) alterano in modo sensibile la capacità del materiale di resistere agli attachi chimici. Anche in assenza di cambiamenti fisica della struttura le molecole dei polimeri sono più mobili a temperature elevate e questo permette una più facile infiltrazione di piccole molecole all’interno del polimero.

È inoltre importante considerare anche il tempo di esposizione del polimero all’agente chimico in quanto un breve tempo di esposizione può provocare degli effetti non immediatamente rilevabili ma che possono influire sulle proprietà del polimero su scale di tempi più lunghe di quelle dell’osservazione sperimentale. Settimane o mesi dopo gli effetti dell’esposizione all’agente chimico possono diventare visibili e portare al fallimento del campione. È quindi molto importante studiare bene quale deve essere il tempo di esposizione della resina all’agente chimico in funzione dell’attesa di vita dell’applicazione che si vuole creare con il materiale sotto esame.

La incompatibilità chimica può essere definita in molti modi ed è dipendente dall’applicazione considerata.



Questo articolo è pubblicato sulla rivista NT Nuovi Tessili , consulta il sommario.